Il nuovo primo ministro serbo, Aleksandar Vucic, sceglie Sarajevo come primo viaggio all'estero. Un gesto simbolico, con un occhio di riguardo al processo di integrazione europeo e al business, il principale volano del dialogo nei Balcani.
(Scritto per Il Manifesto)

di Matteo Tacconi
Aksandar Vucic non è soltanto il primo ministro serbo eletto con più voti nella storia post-miloseviciana del paese. È anche un ex esponente del Partito radicale, la formazione dell’ultradestra fondata da Vojislav Seselj — che durante le guerre balcaniche comandò squadracce paramilitari — ma dalla quale si è poi separato il Partito progressista di cui attualmente fa parte.
Va da sé che, dato che nei Balcani capita spesso che il passato proietti ancora la sua ombra sul presente, la visita che ieri Vucic ha compiuto a Sarajevo, la prima all’estero da quando ha assunto la carica di capo del governo, forte del 48% incassato al recente voto dal suo Partito progressista, ha alimentato sospetti e retroscena. D’altro canto a Sarajevo la memoria dell’assedio pesa ancora.

La stampa sarajevese ha scritto, nei giorni scorsi che hanno preceduto il suo arrivo, che l’agenda del Partito progressista prevede che Belgrado debba espandere i propri confini, incamerando la Republika Srpska, l’entità serba della Bosnia Erzegovina secondo il Trattato di Dayton. Qualcuno ha inoltre mormorato che a suggerire a Vucic di recarsi a Sarajevo siano state l’Europa e la Turchia, orientate a riscuotere punti sul fronte della cooperazione regionale. Bruxelles per dimostrare che l’allargamento ai Balcani non è un progetto sfiorito; Ankara per dare seguito a un percorso iniziato nel 2010, quando mediò – quasi in sostituzione dell’Ue – allo scopo di rimettere in moto i rapporti tra Serbia e Bosnia Erzegovina, fermi al palo da troppo tempo.
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